Pietro Verzina – Polli fritti coi piedi

Pietro Verzina

POLLI FRITTI COI PIEDI

Secondo la leggenda, l’idea venne a qualcuno, fulminea, dalla lettura di una novella medievale, la quale rielaborava a sua volta certe tradizioni folkloriche bretoni sul paese della cuccagna; la messa a punto del metodo richiese tuttavia dodici anni di ricerche e il sacrificio di migliaia di cavie. Però quella che alcuni consideravano strage veniva da altri derubricata a lungimiranza, mentre i fautori della pratica avevano perfino il coraggio di spacciarla come innovazione dai fondamenti animalisti. Anche i costi ambientali dell’allevamento, nonostante le pretese di ecologismo, venivano giustificati a fatica: era stato edificato in Virginia un sofisticato capannone, l’unico al mondo nel suo genere; il costante irraggiamento interno lo rendeva simile a una sorta di gigantesco forno elettrico a bassa intensità. Non si trattava, si capisce, di comuni microonde, bensì di un nuovo tipo di radiazioni. Lo definivano “il metodo di cottura più lento possibile”. Il prodotto finito, ovviamente, costava un occhio della testa; in compenso, anche uno solo capo di bestiame poteva tradursi in un ottimo investimento, soprattutto una volta brevettato il metodo della proliferazione cellulare filonecrotica.

L’introduzione degli additivi rigeneranti fu, in effetti, la vera rivoluzione. Prima che il loro utilizzo cambiasse il mercato, la “carne virginiana” era considerata uno sfizio per pochi. Gli animali cotti vivi erano allora una rarità disponibile in appena una decina di ristoranti al mondo. Il più celebre di tutti era il mitico Kronos’ Alive Foods di Las Vegas, dove manzi scuoiati, polli spiumati e due varietà di maiali, con o senza cotenna, venivano lasciati liberi di aggirarsi per le sale. Per via del suo prestigio e delle sue specialità pressoché uniche, l’esercizio avrebbe conservato intatta la sua fama anche negli anni in cui la tratta del bestiame cotto sarebbe diventata pratica comune nel settore; ma nessuno avrebbe mai dimenticato l’epoca d’oro del Kronos’, quando il locale era frequentato assiduamente da star del cinema e le sue cene erano attestati di inarrivabile esclusività. Nelle serate di surgical self-service i clienti erano autorizzati a ritagliare autonomamente bistecche e scamerite, ferma restando la facoltà di chiamare in soccorso un cameriere armato di una sciabola di foggia esotica. La carne, narravano i rotocalchi, era tenerissima e chiara, quasi si sfaldava tra le mani tanto era stata cotta lentamente: la tecnologia di allora, va detto, imponeva un processo di riscaldamento assai più lungo rispetto ai tempi richiesti dalle radiazioni di seconda generazione, lo sviluppo delle quali avrebbe garantito una resa maggiore e standard più elevati di sicurezza igienico-sanitaria, a prezzo, però, di un leggero abbassamento della qualità gastronomica. Si era ancora, certo, in un’ottica di sperimentazione e stravaganza, ed era in qualche misura inevitabile un adattamento dei gusti, sia perché alcune caratteristiche delle pietanze si discostavano di necessità dalle convenzioni culinarie correnti, sia in quanto esse tendevano a risvegliare sensazioni che ricordavano, e allo stesso tempo surclassavano, lo spontaneo ribrezzo fino ad allora riservato al crudo. La cane virginiana, ad esempio, non giungeva al piatto bollente come una bistecca appena tolta dalla piastra, ma non era nemmeno sgradevolmente fredda: essa emanava quel piacevole tepore biologico da temperatura corporea basale che, come scrisse una nota guida dell’epoca, «contrariamente a quanto si è finora ritenuto, e abbastanza logicamente, rappresenta il livello termico ideale di qualsiasi alimento di origine organica». Il bello era che gli animali erano docilissimi e perfino amorevoli, soprattutto i maiali: erano loro stessi a sollevarsi puntando le zampe anteriori sulla tovaglia al fine di consentire che dal loro groppone o dai loro glutei venissero prelevati i tagli più soffici e succosi. La Virginia Alive Foods, del resto, includeva a richiesta uno speciale addestramento; assicurava inoltre che gli animali, per via dell’effetto anestetico delle radiazioni sulle terminazioni nervose, non sentivano alcun dolore, e così sembrava in effetti. Alcuni giornali, tuttavia, scrissero di interventi non dichiarati di enervazione preventiva. All’epoca era ancora consentito strappare via le ossa o infilare una mano tra i muscoli per cavarne il cuore lesso o i rognoni fumanti, per questo il Kronos’ era frequentato soprattutto da sadici riccastri in cerca di emozioni forti. In genere in una serata andavano via tre o quattro maiali, i quali, messi in giro tra i tavoli alle nove, già verso le undici non riuscivano più a reggersi sulle zampe e stramazzavano al suolo, dovendo quindi esser sdraiati sui vassoi e serviti alla vecchia maniera. Secondo alcuni, ad onta delle edulcorate cronache hollywoodiane, il tutto era abbastanza sgradevole.

Quando la proliferazione filonecrotica divenne pratica comune, il giro d’affari crebbe e l’uso della carne virginiana si fece più ordinario, esteso e diversificato. Grazie a semplici iniezioni periodiche, le cellule si rigeneravano a ritmi abbastanza rapidi; il vantaggio era che il normale processo di mitosi faceva sì che venissero fuori già cotte. Di conseguenza, bastava allevare un maiale per avere a disposizione una riserva di salumi “a vita”, il che significava, evidentemente, a vita del maiale. Certo, c’era da considerare l’investimento iniziale, bisognava acquistare le fiale in abbonamento e nutrire l’animale a dovere, giacché era prevista una dieta specifica; però, se scarnificato con parsimonia e oculatezza, esso aveva una speranza di vita paragonabile a quella di un esemplare allevato crudo; anzi superiore, considerato che quest’ultimo, in genere, veniva macellato nel fiore degli anni. L’uso di tenere un piccolo pollaio in giardino tornò in auge nei quartieri residenziali. La gente cominciò addirittura a procurarsi animali precotti da compagnia, perché alcuni consideravano piacevole, conveniente e addirittura affettuoso dare ai propri cuccioli un morsetto di tanto in tanto mentre li tenevano in grembo davanti al televisore. Il Kronos’ acquistò una batteria permanente di trentadue maiali e sedici manzi da mandare in sala a turno, il che consentiva di lasciare a maggese i capi più consumati senza dover interrompere il servizio. L’investimento mise fine agli stramazzi di fine serata e aumentò gli utili a dismisura, sebbene gli aficionados non facessero mistero di rimpiangere le vecchie orge. La direzione, infine, decise di lasciare la possibilità di prenotare esemplari speciali allevati alla vecchia maniera, perché alcuni clienti andavano dicendo che la carne alimentata dalle iniezioni fosse più acquosa e meno saporita rispetto alla polpa originaria dell’animale.

Grazie all’ingegneria genetica, infine, l’uso degli additivi non fu più necessario. Adesso i tessuti ricrescevano spontaneamente dopo il prelievo. L’unico problema era che bestie del genere non potevano in alcun modo essere castrate, perlomeno non permanentemente: le carni dei maschi, di conseguenza, risultavano più agre. In compenso, i capi da monta davano prole già arrosto. Mandrie di bovini pronti all’uso furono mandate nei villaggi più poveri del terzo mondo: bisognava solo adottare alcuni speciali accorgimenti, ad esempio coprire le vacche spellate con coltri di lana, non tanto per il freddo notturno, ma in quanto, prima che venisse brevettata la concia innata, varie specie di insetti riuscivano facilmente a nidificare nei loro muscoli molli e cedevoli, mentre problemi del genere non si ponevano per i suini e il pollame, su cui la pelle ricresceva già abbrustolita, croccante e impenetrabile.

Tutti si aspettavano che prima o poi sarebbe accaduto. La Virginia Alive Foods assicurò più volte di non aver mai avuto alcun programma del genere allo studio, ma nessuno ci credette. Ci fu un clamoroso servizio televisivo nel corso del quale vennero intervistati quattro sedicenti ex operai, che parlavano di tute inefficaci e porgevano l’avambraccio al disgustato presentatore, il quale ovviamente rifiutò di sottoporsi all’assaggio. Il servizio si rivelò infine una messinscena e fu all’origine di una grossa causa per danno d’immagine. L’azienda dimostrò, peraltro, che già da tempo la manodopera del capannone era stata quasi integralmente robotizzata. In realtà Max Feeding (non si seppe mai se questo fosse un nome d’arte) aveva poco a che fare con la Virginia Alive Foods: non si trattava, come dicevano su internet, né di un ex allevatore né di un manager licenziato. Max era un semplice studente di ingegneria che si era costruito un piccolo generatore di radiazioni in garage. Il primo uomo cotto vivo di cui si abbia notizia racconta nella sua autobiografia che all’inizio della sua carriera egli si vide costretto a lavorare in loschi locali clandestini, in cui non solo si praticavano trasgressioni culinarie, ma si dava sfogo ad oscure perversioni sessuali. Dopo alcuni anni, però, Feeding fu assunto in esclusiva dal Kronos’, di cui rimase per decenni la principale attrazione e in cui fu assaggiato perfino da un’altezza reale. Tutto poteva svolgersi alla luce del sole grazie a un vuoto normativo sfruttato dai legali del locale: la legge americana, infatti, non puniva l’antropofagia come tale, ma solo in quanto solitamente secondaria ad altri delitti, come l’omicidio o le lesioni personali. Molti sostenevano che era anzi una buona cosa poter finalmente assaggiare la carne umana senza far del male a nessuno, e inferivano che il tabù non sussisteva in mancanza del sacrificio. Gli antropologi, grattandosi un poco il capo, diedero infine ragione ai buongustai.

Max non aveva subito alterazioni genetiche, per cui la sua carne ebbe sempre quel gusto un po’ scipito di fiale rigeneranti. A cinquant’anni si ritirò dalle scene per fare un giro intorno al mondo. In seguito incontrò una donna cotta: nessuno seppe mai da dove fosse saltata fuori, come nella Genesi la moglie di Caino. Dopo la morte di Max, Pamela Feeding dichiarò che per lunghi anni lei e il marito si erano nutriti quasi esclusivamente l’uno dell’altra, ma che lei non aveva mai assaggiato se stessa; Max, invece, si era sempre cibato delle proprie carni, un’abitudine che gli era rimasta dagli anni della gavetta, ma che, a causa di vincoli editoriali, non aveva potuto confessare nella biografia. Il loro unico figlio, a detta della madre, era nato già cotto a puntino e non aveva mai avuto bisogno di iniezioni. I darwinisti si scervellarono, ma infine si scoprì che Pamela aveva subito un intervento sul DNA. Sebbene quella dell’uomo cotto vivo fosse nel frattempo diventata una professione quasi ordinaria, Pelops Feeding rimase una celebrità fino alla morte e fu sempre considerato un campione nel suo genere, vuoi per gli illustri natali, vuoi per la sua straordinaria capacità di rigenerarsi in pochi giorni anche a partire da un residuo pari ad appena il 20% del suo peso originario, a patto che, in mancanza dell’apparato digerente, esso fosse nutrito tramite immersione in uno speciale brodo proteico. Pelops sosteneva inoltre di essere in grado di variare il proprio livello di cottura, anche se nessuno lo vide mai al sangue. Non fu mai accertato se la sua dipartita fu dovuta a un trucco finito male, a una sorta di baking mistake o a un tentativo riuscito di autocremazione.

L’attrattiva della carne virginiana scemò rapidamente dopo che, scaduti i brevetti originali, l’impiego di animali precotti nella grande distribuzione divenne la regola. Quelli crudi — o, come venivano chiamati ultimamente, “freschi” — erano adesso primizie molto ricercate. Sulle etichette cominciarono ad apparire scritte come “da bestiame crudo alla nascita” o, per le linee gourmet, “da bestiame crudo alla macellazione”. Anche le scatolette di carne umana si trovavano ormai sugli scaffali dei supermercati, ma in quel caso il “crudo alla macellazione” rimase appannaggio del mercato nero.